Il format con il quale costruiamo le nostre presentazioni ha molto a che fare con elementi di cultura organizzativa che, nascosti dietro alle nostre slide, entrano subdolamente in gioco a nostra insaputa mentre creiamo una presentazione. Per “cultura organizzativa” intendo, esattamente come Clifford Geertz, un dispositivo semiotico: una sorta di “documento agito”, non perfettamente esplicitabile, ma che governa implicitamente le nostre scelte. In genere sopiti e invisibili, questi elementi emergono nei momenti di crisi, sotto forma di ansia.
Una volta ho dovuto preparare la presentazione a una mega-dirigente per un meeting di alto livello: il pubblico era composto da altri mega-dirigenti più una attenta selezione della “truppa”. Un classico: si commentano i risultati e si getta uno sguardo sugli obiettivi a venire. Un format conosciuto, che si concretizza, in genere nella selezione/combinazione di alcuni elementi base:
– numeri e tabelle
– grafici
– frasi vaghe e slogan
– immagini “di repertorio” (tipo: saltatore con l’asta)
– punti-elenco
– esposizione neutra
– esclusione del soggetto dall’oggetto del discorso
Insomma, una noia mortale. Quindi, parlo con la dirigente e le do due suggerimenti:
– evita, nelle slide, di mettere numeri, grafici, tabelle, frasi ad effetto e immagini scontate: ogni slide deve contenere una sola parola e una sola immagine, tipo variazioni sullo stesso tema
– racconta una storia: ripensa a qualche episodio significativo e raccontalo. Qualcosa di vero, che ti appartiene. Non aver paura di divagare, prenditi il tuo tempo: raccoglierai le fila al termine.
La dirigente è affascinata dall’idea e si mette all’opera. In breve tempo elabora la sua storia. Tutto bene, quindi. Solo che, a un certo punto si sente a disagio. Non le basta un’immagine e una foto per slide: lei vuole raccontare che prima eravamo in questa fase e ora dobbiamo arrivare in quest’altra fase e quindi ci vogliono almeno due parole, e due immagini. Poi si accorge che dobbiamo mettere per forza dei punti elenco, però l’immagine vuole lasciarla, ma sullo sfondo.
Ed ecco che il concept, da semplice richiamo evocativo, diventa una versione sbiadita del classico “grafici/tabelle/punti-elenco” Un mescolamento inquietante. Primo errore.
Arriva il giorno del meeting e siamo tutti in pista: la dirigente è visibilmente nervosa e la sua ansia cresce sempre di più man mano che si avvicina il suo turno. Poi sale sul palco, e comincia a raccontare la sua storia. La storia era perfetta: personale, emblematica, sentita. Chi non era perfetto era lei: sguardo basso, voce flebile, corpo chiuso su se stesso. Un condannato a morte. Secondo errore.
La presentazione alla fine è andata, ma non è stata certo memorabile. Perché? In fondo l’idea era abbastanza buona e la presentazione era innovativa: avevamo usato alcuni elementi ottimi per catturare l’attenzione in un meeting tradizionale:
– slide senza dati
– elementi visuali inconsueti
– autobiografia
– narrazione
Ma non eravamo andati fino in fondo: le slide erano un “ibrido” e la portata innovativa della “storia” era squalificata dalla stessa narratrice, che in un istante aveva capito che cambiare questi elementi non era solo un diverso modo di dire le stesse cose, ma significava mettersi in gioco completamente e uscire dalla gamma di “mosse” concesse.
Insomma, quando cambiamo il format non stiamo lavorando sui contenuti, ma sul codice. E dobbiamo essere consapevoli di quello che stiamo facendo. E non ci sono mediazioni: o ci stiamo o non ci stiamo.
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